Villa Pindemonte-Fiumi (secc. XV-XVIII)
Villa Pindemonte-Fiumi (secc. XV-XVIII)

Recuperata a Sede Municipale dopo vari decenni d’abbandono, la “casa degli Avi”, che per la storiografia artistica è nota come “Villa Pindemonte-Fiumi”, ha una storia antica, densa e significativa da raccontare. Concresciuta alla vita del suo illustre abitatore intrecciandovisi in modo inestricabile, è un museo vivo che, catturando la vita segreta di immagini riflesse nella memoria delle mura, ci restituisce ciò che è rimasto di lui, poiché “l’uomo passa e la casa rimane: rimane a ricordare, a testimoniare, ad evocare colui che non è più”(19) . Attraverso questa lunga storia (che ha percorso le vicende di illustri famiglie sulle quali torneremo più avanti) ancor oggi perfettamente leggibile grazie a un attento e ‘discreto’ intervento conservativo, andremo a iniziare ora un ‘viaggio’ nel quale, stanza dopo stanza, il poeta potrà ancora raccontare se stesso. Villa Pindemonte-Fiumi è una struttura architettonica pluristratificata le cui prime attestazioni documentarie risalgono al 1745, quando il marchese Carlo Pindemonte, l’allora proprietario, esponente di uno dei più potenti casati di Verona che possedeva latifondi in varie altre zone della “bassa veronese”, ne denunciò l’esistenza e la proprietà nella polizza d’estimo di quell’anno, nella quale così è riportato: “Una pezza di terra a Roverchiara, parte prativa con vigne e morari, e parte prativa, con casa dominicale e rusticale, di campi 20 che rende ducati 80”(20) Estintosi poi questo ramo dei Pindemonte, la villa passò nel patrimonio dei Brenzoni, altro illustre casato veronese e, successivamente, per via matrimoniale, al trentino Domenico Fiumi, nonno del nostro poeta. Un’interessante testimonianza cartografica della fabbrica ci è restituita da un disegno di Lodovico Perini del 16 luglio 1718 (che diviene dunque termine ante quem per l’edificazione del complesso), conservato presso l’Archivio Parrocchiale di Roverchiara, e dalla quale risulta che l’impianto attuale corrisponde perfettamente a quello settecentesco(21). Tuttavia, in seguito ad analisi e a saggi stratigrafici effettuati durante l’intervento di restauro, si è potuto verificare che la fabbrica derivi da una struttura architettonica di un certo rilievo, dotata peraltro di torre colombara e databile quantomeno al XV secolo (di questo periodo infatti risulta essere una parte delle apparecchiature murarie rinvenute nel sottotetto)(22) . È emerso, inoltre, che l’artefice della trasformazione settecentesca sia stato proprio il marchese Carlo Pindemonte. Quando, nei primi anni del Novecento, la famiglia del poeta da Verona cominciò a soggiornare durante i mesi estivi nella campagna di Roverchiara, l’assetto tipologico della villa si presentava all’esterno così come oggi lo vediamo, con gli originari elementi decorativi caratteristici del Settecento, non privi di un certo fascino e interesse: le modanature in tufo delle mostre del portale e delle finestre, la cornice di gronda a modiglioni, le aperture ovali del sottotetto, che conferiscono alla facciata un maggior accento chiaroscurale e una leggiadria di gusto barocchetto, e le sagome ricercate delle torricelle dei camini. All’interno, invece, aveva già subito proprio ad opera della famiglia Fiumi un consistente intervento di riammodernamento, quando alcune sale del primo piano furono decorate con eleganti fasce pittoriche in stile liberty, e vennero sostituite varie finiture settecentesche, quali pavimentazioni (che da pianelle in cotto passarono a marmette di graniglia), serramenti e intonaci. I soffitti lignei a travature, alcune delle quali decorate a tempera con motivi policromi, vennero coperti da una controsoffittatura in canniccio e, inoltre, furono realizzate le due tramezze che dividono i saloni centrali (esistenti al piano terra e al piano primo), elemento tipico, quest’ultimo, della tipologia della villa veronese e veneta. Quando l’Amministrazione Comunale promosse l’intervento conservativo della fabbrica, per adibirla nel 1998 a Sede Municipale, accettò anche la sfida posta dai principi canonici della conservazione; infatti, a differenza di quello che accade in molti altri interventi di trasformazione di private residenze storiche in edifici pubblici, dove tutto è sacrificato o addirittura stravolto in nome della funzionalità, nel caso di Villa Pindemonte-Fiumi si è invece tentato il contrario, ossia di adattare la funzione al soggetto, nel pieno rispetto dei caratteri tipologico-architettonici e della conservazione dei valori materici delle permanenze. E tutto questo in linea con le più aggiornate teorie della conservazione che considerano queste fabbriche (che solo riduttivamente chiamiamo ‘beni culturali’) come fonti dirette e documenti storici a tutti gli effetti, in quanto, sapendoli leggere, vi si ritrova scritta tutta la loro storia. Il restauro compiuto, tentando così di valorizzare sia i valori artistici che materici della fabbrica, ha fatto in modo che nessun passaggio storico andasse perduto e, nello stesso tempo, ha restituito quella suggestiva cornice di godimento estetico che era indispensabile complemento di una dimora gentilizia. Bellezza e piacere estetico vennero invece un po’ sacrificati quando la villa, durante gli anni burrascosi della guerra, perdendo la peculiarità di luogo spensierato di vacanza, divenne per il poeta rifugio obbligato e stabile dimora. Fu così che, per esigenze urgenti di funzionalità, al possente camino in tufo con zampe leonine del XVI secolo si affiancarono la prima cucina economica smaltata e le antiquate stufette di ghisa, mentre nelle camere da letto, arredate in stile impero, alle tradizionali comode si aggiunse un primo servizio igienico rialzato, ponendo sul prospetto posteriore un gabinetto pensile su mensola in pietra con strutture lignee. Rimase comunque una dimora gentilizia, con il giardino ottocentesco di alberi ad alto fusto, con un parterre all’italiana variegato di fiori e dalle lunghe aiuole di salvia splendida ai lati della porta d’ingresso che, tingendo il verde dell’estate di un rosso vivido, ne prolungavano il colore fino alle prime nebbie autunnali. Era una dimora ricca impreziosita dai lunghi divani, dalle cassapanche, dalla cristalliera, e poi il trumoncino, gli specchi, lo scrittoio, i vecchi quadri, i tavolini, le poltrone di velluto, le librerie straripanti… al punto che, come riporta Gian Paolo Marchi, “i tedeschi che si stanno ritirando verso il Nord occupano la casa di Roverchiara ma non danneggiano nulla; la grande quantità di libri pare li metta in soggezione”(23). Nella seppur provvisoria, ma raccolta e pensosa, quiete di questa casa Fiumi lavorò assiduamente a saggi letterari e a moltissima poesia. Interrogando la disposizione delle stanze, spesso ci siamo chiesti se il poeta privilegiasse uno spazio dove poter in silenzio confrontarsi con la propria ispirazione, dove magari restare immobile a fissare il soffitto per andare poi a riempire il foglio vuoto.
Nacque qui una tra le sue liriche più belle:
Ecco la casa. Qui tra questi muri Fummo felici, a giorni. I muri ancora Esistono, li tocco. Ma dove sono andati, essi, quei giorni? Tuffati, in essi, noi ci sentivamo Pari a gonfi di succhi Frutti in meriggio d’oro. Questa pietra sfioravano, essi, i giorni, Come in punta di piedi, a non turbarci; Come, al passare, adesso, le mie dita La toccano furtive. Scantonarono. E fu senza ritorno. Svaniti con i fumi del crepuscolo! Dove, adesso, quei giorni? Adesso, sulla strada, ecco un crepuscolo Nuovo calare. Ah sempre questo giungere Il crepuscolo! ah sempre questo subdolo Rubarci giorni! Fra ombre, ancora io sono qui. Superstite Ai giorni; provvisorio Relitto che resiste alla fiumana. Ma un crepuscolo attendo che alla foce Sconfinata dei giorni ormai perduti Anche me, e per sempre, Anche me, anche me travolgerà.(24)
Cercando di lui tra queste mura, salendo le antiche e consumate scale, oggi possiamo ritrovarlo in quello che è divenuto lo spazio più intimo e suggestivo della sua casa: il sottotetto, valorizzato per accogliervi un piccolo ma prezioso museo dove manoscritti, foto d’epoca, lettere inedite, rubriche, quadri, giornali, riviste letterarie e moltissimi libri sembrano essere stati lasciati lì, quasi con familiare noncuranza, dal poeta prima di andarsene, abbandonando, con i giorni ormai perduti, anche indelebili tracce di sé.
Roverchiara
Via Vittorio Veneto 7

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